{ Lenshdar's Memories -- Prologo }, Rating Giallo

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~ Vampiraker
CAT_IMG Posted on 13/2/2012, 20:58




{ Lenshdar's Memories }






Un silenzio irreale avvolgeva la radura, come se fosse stato un manto invisibile, leggiadro e, in qualche modo, solitario. Neanche la fauna irrompeva in quel panorama apparentemente immobile, il che tingeva il tutto con colori quasi irreali, o per lo meno bizzarri e alquanto insoliti. Come un quadro, tinteggiato da un pittore un po’ strano, o forse semplicemente pazzo, che creava sulla tela un mondo tutto suo, parvente non corrispondere alla realtà… e che, al contempo, sembrante trarre la linfa vitale del dipinto dalla realtà stessa. Il frusciare dell’erba, piegata dai primi soffi di un debole vento autunnale, era l’unico sibilo appena udibile, se ci si faceva attenzione e soprattutto se si aveva tempo da perdere in piccoli dettagli insignificanti, piuttosto che stare attenti a dove si camminava. Si, perché i colori di quel quadro non erano delicati ed intrisi di luce, o di qualcosa che potesse anche solo illuminare il paesaggio. No, erano cupi, terribilmente oscuri e tetri. Dopotutto dire che le tinte sono irreali, bizzarre e insolite non sempre sta volendo dire che esse costituiscano, nel loro insieme, qualcosa di piacevole.
L’aria d’inizio settembre era secca. Un fenomeno particolarmente strano, se si pensava che a poca distanza da lì si stagliava il regno di White Edge, il luogo dove, si diceva, le montagne fossero nate. Una leggenda alquanto assurda, eppure predominante, soprattutto in quelle zone. Ci sarebbe voluto ancora un po’ per raggiungere le vette più basse di quel paese, eppure sarebbe stato inutile. Non gli sarebbe servito a niente arrivare fino a lassù, sarebbe stata tutta fatica fatta e tempo perso. Non era quella la sua destinazione. Dove loro gli avevano chiesto di andare. Se proprio dobbiamo essere pignoli, possiamo anche dire che glielo avevano ordinato, senza giri di parole: avrebbe eseguito gli ordini, oppure sarebbe morto, fine della storia, e lui, a fare la fine del topo, non ci pensava proprio. Si era dato un gran daffare, era riuscito nella sua opera e, per quanto disgustosa gli fosse sembrata all’inizio, col tempo aveva cominciato a farsela piacere, fino quasi a reputarla un piccolo capolavoro. Un’opera ben definita, portata a termine con la massima serietà ed efficienza. Un lavoro pulito, insomma. O almeno era quello che aveva intenzione di raccontare loro una volta arrivati sul luogo dell’incontro. Le sue gambe si muovevano veloci ma tremanti, in quel posto dimenticato dal mondo e, se esisteva, da un Dio. Come biasimarlo, dopotutto? Chiunque, al posto suo, si sarebbe comportato allo stesso modo, non era colpa sua, non avrebbe potuto fare altrimenti. Lo avevano minacciato, e lui non era uno di quegli eroi che vivevano nel mondo delle fiabe, non s’impegnava nel fare le puttanate che facevano loro e non salvava principesse che attendevano in luoghi sconosciuti per chissà quanto tempo in torri d’avorio. Si parava solamente il fondoschiena, ecco tutto. La camminata rallentò notevolmente non appena si rese conto di essere nel bel mezzo di una radura, una specie di spiazzo verde ai piedi delle montagne e con, alle spalle, i boschi. Ecco, era arrivato. Si strinse istintivamente nel mantello nero che aveva sulle spalle. Non faceva freddo, anzi, non c’era nemmeno un filo di vento, quasi gli mancava il respiro, ma aveva paura. Una paura fottuta. Non c’era luce, la luna risplendeva debole in cielo, ma di certo non gli dava l’illuminazione che serviva. Non c’erano rumori, solo silenzi, e lui era l’unica cosa che storpiava in quel ritratto di una mente malata. Tutto era così tetro che gli faceva accapponare la pelle: il buio, il silenzio e il fatto di avere appuntamento con qualcosa di molto simile alla morte, lo spaventavano non poco. I pochi secondi in cui rimase lì, fermo, in piedi, al centro di quel posto infernale, gli parvero passare come un’eternità. I brividi cominciarono a farsi strada sulla sua pelle olivastra, mentre gli occhi saettavano prima a destra e poi a sinistra, tentando di catturare ogni piccolo dettaglio di quel posto. A pensarci bene, ora che l’osservava meglio, e che un minimo era riuscito a scorgere il contorno di qualche masso o della radura stessa, quel luogo, di giorno, non sarebbe stato tanto male. Forse sarebbe potuto diventare persino piacevole, per certi versi, in un momento meno teso. Improvvisamente si chiese se sarebbe mai riuscito a vedere quella radura, al sorgere del sole. Portò la mano destra a tastare il tessuto dei pantaloni sulla propria coscia, proprio vicino alla tasca. Si assicurò che aveva ciò che gli era stato richiesto, come aveva, d’altronde, fatto già più di cinque o sei volte, durante tutto il tragitto, per evitare di finire davvero, davvero male. Con suo sommo sollievo sentì il piccolo oggetto quasi pungergli la punta delle dita, e poté tornare a respirare. Si, si, aveva fatto davvero un buon lavoro, non c’era motivo per cui loro si sarebbero dovuti arrabbiare, era da escludere. Alzò lo sguardo al cielo, osservando la mezza luna che spiccava in quell’oscurità, l’unica piccola fonte di luce, tra l’altro la più vicina, che gli permetteva di guardarsi intorno e di intuire da dove potessero arrivare, con tempismo quasi perfetto. Per un istante solo, un solo attimo, un‘ombra calò sulla luna, scendendo in picchiata sulla terra, provocando un tonfo sordo al tocco del terreno e una lieve scossa. Fu un singolo rumore, non troppo acuto, che, tuttavia, in quel silenzio, risuonò come un tuono che squarciava il cielo notturno. Gli bastò per fargli accapponare la pelle. Voltò lo sguardo subito verso quel rumore, tentando di identificare la forma che stava cercando, ma fu distratto da altri due, tre, quattro, cinque fragori simili. Improvvisamente non era più tanto sicuro di sé. L’aria, da secca che era, la sentì cambiare, diventare quasi elettrica, cominciò a temere persino il solo respirare. Lo avevano circondato, lo sapeva, eppure non li vedeva. Un improvviso fruscio lo fece sobbalzare. Proveniva da destra. Prese coraggio, quel poco che gli restava, ormai, e aprì la bocca per parlare, ma non ci riuscì subito, in quanto sentiva la gola, secca, bruciargli terribilmente, tanto da non permettergli di formulare una frase di senso compiuto almeno per i sei o sette secondi seguenti. Ci riprovò, sapendo che si giocava il tutto e per tutto, e soprattutto prima gli dava ciò che volevano, prima se ne andava da lì, magari ancora con tutti gli arti attaccati al corpo.
«Miei signori…», iniziò, leccandosi le labbra impastate da tutta quell’agitazione. La voce che ne uscì non ebbe un tono che era dei migliori nel suo repertorio, ma meglio di niente. Non ricevette risposta.
«Magnifica notte avete scelto, miei signori…». D’accordo, questa non era la miglior cosa da dire per rompere il ghiaccio, ma non sapeva davvero cosa fare. Fece per continuare a parlare, senza riflettere, ma fu interrotto da una voce che gli fece morire la frase che aveva pensato, in gola.
«Non ho tempo per questa roba: hai ciò che ti ho detto di prendere?». La voce che proveniva dall’oscurità era tagliente, ghiacciata. Se il pittore pazzo avesse dovuto scegliere un qualche colore per descriverla avrebbe usato un qualcosa di molto simile al grigio rigato, rovinato, come il colore di un qualche materiale grezzo malamente lavorato. Qualcosa di freddo al contatto con la pelle, di gelato. Non ebbe tempo di trovare le forze per rispondere a modo, se non con un “Si”, appena accennato che dovette prendere dalla tasca dei suoi pantaloni malamente strappati e sozzi l’oggetto appuntito e prezioso: una gemma esagonale, con una punta verso l’alto, incorniciata da una specie di catenella, probabilmente utilizzata per portarla al collo, di una lucentezza tale da poter brillare persino sotto quella debole luce lunare. Lo tenne sul palmo della mano, allungandola con paura verso l’oscurità di fronte a se. Fu un istante e quella piccola gemma scintillante scomparve, inghiottita dalle tenebre con una tale forza da farlo barcollare di qualche passo. Dovette stare attento per non perdere l’equilibrio. Un brivido freddo gli attraversò la schiena. Rimase in silenzio, in attesa di un responso, un qualsiasi resoconto.
«Mi hai servito bene, mercante». Il soffio gelato della sua voce arrivò fino alle sue orecchie e gli scappò un sospiro di sollievo.
«Quindi… posso andare, mio signore?»
«Tuttavia», lo interruppe con una punta di acidità nella voce, e forse un’altra di… cattiveria, oppure rabbia?
«Mi sarei aspettato di più. Non ti pare un po’ poco?»
«Poco, mio signore?», domandò di nuovo il mercante, allontanandosi istintivamente dal vento freddo che gli arrivava addosso. Tremava dalla testa ai piedi, la paura non gli permetteva di ragionare in modo lucido, e le gambe non avevano abbastanza forza da poter correre lontano. Non che avesse avuto una speranza, comunque, di battere anche solo uno di quei demoni dell’oscurità.
«Mio signore, vi assicuro che ve ne porterò altri, in abbondanza», si tradì: parlando balbettò, e il panico cominciava ad assalirlo mentre l’idea di non avere più speranza si faceva avanti nella sua mente, intrappolandolo in una morsa di terrore che solo pochi avevano mai provato prima.
«Non credo di aver bisogno di gente che non fa del suo meglio»
«Ma voi mi avete detto di portarvene solo…», la frase gli morì sulle labbra. E’ incredibile come la mente umana, a volte, lavori in molto meno tempo di quanto gliene serva in realtà. Di come si renda conto di avere i minuti contati e di come tenti in tutti i modi di sopravvivere, aggrappandosi ad una qualsiasi vana speranza, pur di non morire. Nell’animo del mercante quell’idea avanzò veloce, non ebbe molti pensieri da considerare, se non a voltarsi e a cominciare a correre, sfidando il blocco che aveva alle gambe, il fiato corto e la consapevolezza, in fondo all’anima, di essere spacciato. Tutto durò pochi secondi, le ultime cose che riuscì a sentire furono il fruscio dell’erba fredda sotto i propri sandali, i battiti del proprio cuore nelle tempie ed un peso enorme schiacciarlo a terra, prima che, dall’ombra, due, quattro, dieci mani gli cominciassero a strappare persino l’anima. Urlò, verso il cielo, urlò contro tutto quello che c’era nel mondo. Urlò per farsi sentire, ma l’ombra inghiottì quel suono straziante e la luna divenne l’unica testimone oculare di quell’orrenda agonia.
E, lento, così, il pittore decide di dare un altro tocco macabro al suo dipinto, arricchendo la gamma di colori cromatici di qualcosa di più luccicante, la fonte di luce che serviva nel quadro, l’unico colore acceso che metteva in risalto l’ombra stessa. Pazzo, folle, prende il suo pennello, lo pulisce con cura da tutte le sue tinte precedenti, come un assassino spietato che affila i propri coltelli prima di mietere la sua vittima. Poi lo immerge nella miscela designata per la sua creazione. L’ultimo tocco, la créme de la créme. Ed ecco che, con un colpo netto, il pittore pazzo stende sulla tela il colore rosso carminio del sangue.



29//07//2010 ~ Vampiraker

 
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